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La rivoluzione dell’economia collaborativa si fa con l’impresa e il capitale

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Nelle ultime settimane mi è capitato di discutere a lungo di una questione: il ruolo per il capitalismo e per il neoliberismo nell’era del big shift. Continuo a leggere e scoprire ipotesi svariate più o meno credibili riguardo sistemi indipendenti, cooperativi e decentralizzati che possano in futuro sostituire l’azienda sostenuta da azionisti privati: tuttavia spesso trovo incongruenze e grossi buchi nel ragionamento.

Non mi quadra. Ho sfruttato dunque questo ultimo post dell’anno per fare un po’ di ordine tra le importanti riflessioni fatte e lette in questi giorni. In pratica cercherò di spiegare quale ruolo potrebbe avere il cosiddetto capitalismo cognitivo (come lo definisce Michel Bauwens) in un’era di abbondanza e di mercato intangibile, o come la chiama Jeremy Rifkin, l’era della società a costo marginale zero.

In breve credo che nel post-big shift la visione di un mercato dove un capitalismo trasformato e abilitante coesiste con la peer production collaborativa più che venire allo scontro, sia l’unica vera prospettiva di prosperità

Per il sistema neoliberale capitalista che oggi vive un momento di scontro frontale con le comunità (magistralmente descritto nel libro seminale di Piketty di cui abbiamo spesso parlato) non sarà un passo facile; tuttavia se è vero, come è vero, che il capitalismo impara non solo dai propri errori ma soprattutto dai propri successi, sarà credo una trasformazione naturale.

Prospettive globali dall’estinzione al “decollo”

Una lettura interessante al riguardo, pure non essendo un capolavoro, è l’ultimo lavoro editoriale di Peter Thiel “From Zero to One”. Nel libro l’autore che meglio di tutti forse incarna il pensiero politico della Silicon Valley affronta riflessioni di portata assolutamente sottovalutata. “From Zero to One” risulta quasi un manifesto del capitalismo (cognitivo) neoliberale  startuppista e della visione che esso stesso ha dell’innovazione. In un denso capitolo conclusivo, il magnate californiano delle startup prospetta (citando Nick Bostrom) quattro potenziali scenari in cui la società moderna può evolvere nel futuro. Questi quattro scenari includono:

  • il collasso ricorrente (alternanza tra prosperità e rovina)
  • il plateau tecnologico (il futuro sembra più o meno come il presente)
  • l’estinzione (non penso di dover spiegare nulla a nessuno qui)
  • il “decollo” (un futuro molto migliore).

Scondo Thiel il collasso ricorrente non sembra poi una prospettiva così credibile: ce la vedete voi l’umanità che torna all’età della pietra per tornare poi a sviluppare la sua tecnologia? Questo futuro, per quanto possa far felici i fan dello steampunk, non sembra granché verosimile. D’altro canto non vale la pena di farsi tante domande neanche sulla prospettiva della futura estinzione: ci pensano i disaster movie di Hollywood. Passiamo alle due prospettive rimanenti.

Da una parte c’è futuro dove continuiamo a globalizzare le stesse tecnologie, gli stessi modelli di consumo e le stesse ideologie e continuiamo – ad libitum – ad avere questo livello di accesso a beni, servizi e tecnologie (il plateau). Tuttavia, una domanda legittima da porsi riguardo questa prospettiva è di nuovo quella legata alla sua credibilità: dato il livello di conflitto oggi presente sulle risorse, data la situazione climatica attuale, dato il livello di frizioni geopolitiche possiamo realmente immaginare un futuro statico dove gli attuali rapporti di forza – ad esempio tra Paesi emergenti e sviluppati, o tra 99% e 1% – resistano indefinitamente? Improbabile.

L’unico futuro credibile che ci resta da esaminare è dunque quello in cui inventiamo qualcosa di radicalmente nuovo

Tecnologie così potenti e modelli talmente nuovi che surclassano la nostra capacità di immaginazione oggi. Ma come generare un tale livello di innovazione?

Darren Moore, Singularity. Fonte: Nlwirth.com

Darren Moore, Singularity. Fonte: Nlwirth.com

Innovazione radicale, di larga scala

Proprio in questa prospettiva trasformativa, il capitalismo neoliberale potrebbe essere destinato nell’adattarsi a diventare capitalismo “abilitante”. La questione centrale è questa: possono i sistemi peer-to-peer, liquidi, aperti, orizzontali, partecipativi generare il livello di innovazione oggi necessario in autonomia? Se da una parte non c’è alcun dubbio sul fatto che questi modelli collaborativi inducano quello che chiamiamo “large scale peer learning” (ovvero una società in grado di imparare moltissimo e adattarsi molto velocemente), essi sono stati raramente in grado di disegnare, sviluppare e portare alla crescita nuove tecnologie abilitanti autonomamente.

Il ruolo dei leader, dei fondatori, dei visionari e degli investitori è spesso sottovalutato quando – da più parte nella comunità dei commoners – si considera la storia recente degli incrementi tecnologici radicali. A prescindere dalla natura pubblica o privata dei capitali che hanno sostenuto l’innovazione, lo sviluppo e la distribuzione massiva della stessa innovazione a nuove categorie di utenti è avvenuta sostanzialmente sempre come frutto della leadership di un singolo o di una entità commerciale privata operante sul mercato.

Pochissimi sono gli esempi di innovazione frugale e partecipativa che hanno conquistato i mercati abilitando un’innovazione di grande portata. Tra i pochi, possiamo forse fare l’esempio di Linux, ma la domanda è: dove sarebbe Linux senza la leadership di Torvalds? Dove sarebbe l’impatto di Linux senza l’adozione da parte di Google (con Android) o senza l’utilizzo che IBM e altri corporate brands (Red Hat e Ubuntu compresi) ne hanno fatto nel corso tempo?

Dunque, se è vero che possiamo generare nuove ondate di innovazione distribuita e abilitante e nuove categorie di abbondanza creando sistemi partecipativi, questi sistemi si innestano spesso su una visione iniziale frutto del design di un singolo, di un team o di una organizzazione privatistica

Altre volte il capitale e l’iniziativa privata sono fondamentali nel re-interpretare e ridefinire questi sistemi, facilitandone la penetrazione sul mercato (es: Google con Android per Linux) creando o contribuendo a creare dei “brand di brand” o piattaforme abilitanti (Android è di nuovo una buona incarnazione).

Nella società a costo marginale zero di cui parla Rifkin, i ruoli potrebbero essere dunque insolitamente chiari: il capitalismo neoliberale crea nuove infrastrutture e interfacce abilitanti e rende possibile l’emersione e la connessione tra domanda e offerta, spesso creando interi nuovi mercati; i sistemi e le interazioni peer-to-peer si sviluppano poi grazie a queste infrastrutture, in maniera più o meno controllata, generando il valore  a livello delle nicchie e della longtail.

Nuove modelli per fare impresa

Un interessante contributo alla discussione lo possiamo trovare in un recente pezzo sull’Harvard Business Review, in cui Barry Libert ha presentato uno studio condotto in collaborazione tra OpenMatters e Deloitte basato su 40 anni di S&P500. Nel rapporto si descrivono i quattro macro gruppi di business models confrontatisi sul mercato in questi ultimi 40 anni:

  • Costruttori di asset: aziende che costruiscono, sviluppano e allocano asset usati per per produrre, distribuire e vendere oggetti fisici. Esempi: Ford, Wal-Mart e FedEx.
  • Fornitori di servizi: queste società forniscono servizi ai clienti o producono ore fatturabili di lavoro che fanno pagare. Esempi: United Healthcare, Accenture e JP Morgan.
  • Creatori di tecnologia: queste  aziende sviluppano e vendono proprietà intellettuali come software, analisi, ricerca farmaceutica e biotecnologie. Esempi: Microsoft, Oracle e Amgen.
  • Orchestratori di reti: queste aziende creano una rete di peer in cui i partecipanti interagiscono e condividono la creazione di valore. I peers possono vendere prodotti o servizi, costruire relazioni,  dare giudizi, collaborare, co-creare e altro. Esempi: eBay, Red Hat, Visa, Uber, Tripadvisor e Alibaba.
Barry Libert, credits: YouTube

Barry Libert, credits: YouTube

Senza grosse sorprese sono in molti a sostenere questa ipotesi a supporto delle enormi valutazioni sul mercato delle aziende piattaforma come Airbnb o Uber: la ricerca ha confermato come gli orchestratori di rete abbiano storicamente ottenuto risultati finanziari migliori rispetto agli altri modelli di business, in diverse dimensioni chiave: migliori valutazione di borsa, crescita più rapida, maggiori margini di profitto.

Risultati analoghi o, per meglio dire, una dimostrazione basata su dati tangibili degli stessi “comportamenti”, ci è stata fornita recentemente anche da FABERNOVEL che, in un piuttosto interessante report chiamato GAFAnomics (New Economy, New Rules) ha mostrato come Google, Amazon, Facebook e Apple facciano parte – o meglio siano forse oggi i più chiari rappresentanti – proprio di una nuova “razza” di aziende.

Queste aziende sono capaci di creare interi nuovi mercati fatti di milioni di utenti, raggiungendo user base globali facendo della connessione e della generazione di interazioni il più importante motore di crescita economica dell’era digitale

Il tutto in virtù di un approccio chiave: quello di creare customer driven value e generare user experience decisamente superiori rispetto alla loro concorrenza, di diversi ordini di grandezza, fino a fornire soluzioni centinaia di volte migliori (più veloci, meno care, etc.) di quelle esistenti.

La copertina della ricerca GAFAnomics. Credits: Slideshare.net

La copertina della ricerca GAFAnomics. Credits: Slideshare.net

L’estremo successo di questo tipo di aziende, che spesso “orchestrano” reti di produzione peer-to-peer (come accade nei social media, nell’e-commerce o nella Sharing Economy), è un’ulteriore dimostrazione di un evidente trend di intangibilizzazione: queste aziende hanno infatti meno bisogno di investimenti in risorse tangibili (rispetto a quelli che potrebbe avere una azienda retail tradizionale o una catena di alberghi). Esse hanno bisogno di meno personale in quanto più snelle, orizzontali e basate su infrastrutture digitali e investono gran parte dei loro budget nell’innovazione di prodotto e nel creare e nel sostenere la domanda e l’offerta per i propri innovativi servizi.

Dalla Value Chain a Internet                    

Ma quanto merito hanno proprio aziende come Google, Apple, Facebook o Amazon se oggi possiamo confrontarci con modelli radicalmente nuovi di produzione?

Esko Kilpi. Credits: portal.liikennevirasto.fi

Esko Kilpi. Credits: portal.liikennevirasto.fi

Un pezzo meraviglioso di Esko Kilpi spiega con parole chiare il ruolo del capitale, del lavoro e del lavoratore nel mercato digitale iperconnesso:

Internet è il primo ambiente di comunicazione che decentra i requisiti patrimoniali finanziari della produzione. Gran parte del capitale non è solo distribuito, ma anche in gran parte di proprietà dei lavoratori, delle persone che usano i propri smartphone e dispositivi intelligenti, che sono effettivamente le nuove macchine di lavoro. [...] Non è più necessario dunque essere presenti in una fabbrica o in un ufficio, ma lo è essere presenti per gli altri. [...] Le aziende sono teoricamente forme organizzative intermedie che organizzano i processi di sviluppo, di produzione e distribuzione. Possono forse oggi le aziende essere sostituite da applicazioni? Possiamo usare apps invece che avere manager? Forse sempre più le nuove imprese sembrano loro stesse apps, come Uber o Airbnb.

Nella visione di Kilpi la rete e la tecnologia non solo sono fattori abilitanti di un nuovo modello di produzione, ma sono in effetti strumenti di “liberazione” in grado di spostare il potere dalla grande azienda al lavoratore e di alimentare una nuova era di lavoro indipendente (o meglio inter-dipendente) guidato da passione e significato

Una questione però rimane aperta: quale meccanismo dovrebbe far sì che, mentre sfruttiamo le potenzialità di questa nuova era abilitante, riusciamo a tenere sotto controllo il crescente potere del cosiddetto capitalismo cognitivo su ambiente e società? Se usiamo app al posto di imprese e organizzazioni, chi ci garantisce la loro bontà e la loro integrità?È realmente possibile immaginare che un mercato sempre più “digitale” e “singolare” acceleri verso una prospettiva in cui capitale neoliberista e comunità peer to peer interconnesse possano coesistere ed accompagnare la società umana verso il “takeoff” di cui parla Thiel?

Bitcoin Blockchain. Credits: Flickr.com

Bitcoin Blockchain. Credits: Flickr.com

Spesso si parla della possibilità che entità autonome, quasi automatiche, possano sostituire la “firm”, l’azienda che disegna, cura, manutiene e innova una “piattaforma” (un sistema abilitante). Giorni fa si leggeva su CoindeskC’è un modo migliore? [ndr: di gestire una piattaforma di servizi collaborativi] Una delle più significative promesse di bitcoin è la sua capacità di operare in un modo autonomo e decentralizzato, con un grado di fiducia che è codificato nella rete. Sappiamo che le cryptocurrency sono eccellenti strumenti di pagamento: potrebbero forse essere utilizzate per altri aspetti fondamentali di una piattaforma collaborativa?

Il web pullula di elucubrazioni sull’utilizzo della blockchain (la tecnologia su cui bitcoin si basa), scenari in cui si evocano immagini di fantomatiche DApp (Decentralized App) o DAO (Decentralized Autonomous Organization) che funzionano da piattaforme “condivise” e co-gestite da un sistema di pari (utenti), tagliando fuori il ruolo dell’investitore, del designer, del founder: ma chi si occuperebbe in tal caso della perpetua innovazione? Chi ne migliorerebbe la user experience continuamente? In che modo una tale organizzazione potrebbe competere con una non autonoma, ma controllata – magari in maniera trasparente e “fair” – da un capitale privato che riesca a fornire maggiore valore e imporre un prezzo considerato accettabile da una comunità di utenti?

Se da più parti si evoca la nascita di queste nuove organizzazioni semi-autonome, risulta sostanzialmente più credibile la prospettiva che propone, ad esempio, Lisa Gansky nel suo bellissimo ultimo pezzo su Fast Co.Exist.

Lisa Gansky. Credits: Trendhunter.com

Lisa Gansky. Credits: Trendhunter.com

Gansky evidenzia come i creatori (e spesso proprietari) della piattaforma hanno un ruolo fondamentale in moltissimi momenti chiave della vita di queste aziende. Come fa notare Gansky essi “creano la domanda, garantiscono prezzi competitivi, gestiscono le aspettative (garantendo assicurazioni e responsabilità civile per esempio), creano un’applicazione mobile e un sito web funzionali, monitorano le prestazioni e creano meccanismi di compenso”.

Secondo Gansky costruire modelli di business che generano dignità e sperimentare nuovi incentivi che portino ad una parziale condivisione della proprietà e della strategia di queste aziende con i peers e i prosumer, potrebbe essere la strada giusta per dare loro resilienza e aumentarne il valore del marchio

La domanda legittima da porsi dunque è: chi spingerà le aziende a trasformarsi in una direzione più equa, trasparente ed empowering?

Dalla narrazione all’impresa

Sempre di più notiamo che la natura interconnessa della nostra società è in grado di generare potenti nuove narrazioni che sono in grado di fortificarsi, espandersi e consolidarsi anche con notevoli impatti tangibili al di fuori dal reame digitale.

Forse qualcuno si sarà accorto che in Spagna un partito con visioni piuttosto radicali, nato dalle ceneri del movimento degli “indignados”, è oggi in grado di impensierire i partiti tradizionali spagnoli al punto tale da essere diventato un contendente reale per la vittoria alle prossime elezioni. Il bel pezzo di Roarmag, intitolato “Podemos: the political upstart taking Spain by force” spiega bene il substrato e il processo con cui il movimento Podemos è riuscito – in maniera analoga a quanto il Movimento 5 Stelle ha fatto in Italia, pur se con qualche evidente differenza sui programmi – a sviluppare molto rapidamente una narrazione comune e a portarla all’attenzione dei cittadini, accumulando consensi esponenzialmente: “Podemos irrompe nella scena politica perché ha capito il clima all’indomani delle proteste del 2011 meglio di qualsiasi altro attore. Il ruolo delle reti sociali nel connettere i movimenti è molto importante, ma le organizzazioni politiche hanno erroneamente inquadrato questo aspetto come un vuoto supporto a una ideologia tecno-politica, decentralizzata e peer-to-peer… Podemos invece ha guardato ai social network come un laboratorio discorsivo attraverso il quale costruire e rafforzare una narrazione comune, al fine di massimizzarne l’impatto”.

Uno dei comizi di Podemos. Credits: Roarmag.org

Uno dei comizi di Podemos. Credits: Roarmag.org

Anche  se oggi non parliamo di politica, credo che l’esempio di Podemos dia la possibilità di evidenziare la velocità e la potenza delle narrazioni che oggi possiamo creare, praticamente senza alcun mezzo economico sostanziale (capitale). In un recente e bellissimo post sul suo blog John Hagel ha parlato dell’intersezione tra aziende e movimenti, dando un contributo alla discussione che ritengo sia cruciale.

Secondo Hagel le aziende devono imparare a identificarsi, sostenere e creare nuove narrazioni che vadano molto oltre i loro confini

Nel passo che riporto risulta chiaro come queste narrazioni siano inevitabilmente legate alla creazione di nuove innovazioni abilitanti, nella prospettiva del takeoff: “Una narrazione aziendale efficace dovrebbe indicare un’opportunità che è al di là della portata di una sola azienda oggi, un’opportunità non solo per quest’ultima, ma per molti, molti altri. Una possibilità così grande che non può essere raggiunta in isolamento, ma che richiede un’azione collettiva [...] potrebbe essere l’opportunità di generare valore economico e ricchezza senza precedenti, la possibilità di raggiungere livelli di benessere e longevità che prima non erano inimmaginabili, l’opportunità di scoprire e di esprimere la propria individualità e collegarla agli altri, o la possibilità di dare ai nostri figli strumenti nuovi con inimmaginabili livelli di impatto.

Secondo Hagel, compagnie che funzionino come movimenti o ne sappiano impersonare gli obiettivi condivisi possono apprendere velocemente e su larga scala (scalable learning) e allo stesso tempo generare innovazione distribuita e partecipativa, con enormi motori di crescita. In ultima analisi queste aziende-movimento passerebbero da una posizione di risposta di breve periodo ai cambiamenti sul mercato esistente, alla capacità di definire attivamente la realtà del nuovo possibile grazie alla creazione di mercati interamente nuovi di cui diventare leader incontrastati.

Dai brand che creano narrazioni alle narrazioni che creano i brand

Ora, provando a mettere insieme i puntini possiamo forse riuscire a immaginare la nuova prospettiva nella sua interezza:

  • Le comunità interconnesse sono incubatori di nuove narrazioni
  • I leader semplificano, focalizzano, ampliano queste narrazioni
  • Queste narrazioni possono diventare brand, questi brand possono diventare nuove imprese e ventures, basandosi sulle infrastrutture abilitanti esistenti
  • Queste nuove imprese generano nuova competizione per gli incumbent e trasformano il mercato (per il meglio)

In questa prospettiva di power shift, il potere passa evidentemente e sempre di più dalle mani del brand verso il peer e la comunità: la parte più viva e dinamica del mercato è quella più vicina alle comunità di utenti

Qui emergono la gran parte delle interazioni, delle relazioni e delle transazioni (centrali nella nuova value chain interconnessa). Questa componente del mercato è sostanzialmente intangibile. La componente tangibile è sempre di più considerata alla pari di una utility a cui si chiede sempre maggiore ri-configurabilità e standardizzazione. Malgrado il lavoro del costruttore di infrastrutture non sia semplice, queste componenti del mercato rappresentano oggi grandi opportunità accentrative per la generazione di ricavi. Incidentalmente, questi attori infrastrutturali che tendono a diventare monopoli, sono capaci di generare un quantitativo di dati tale che rende i loro gestori e possessori oggi i veri signori della rete.

Ma di quanta indipendenza godono in effetti? La loro natura di utility abilitanti e la crescente velocità con cui le nuove narrative si affermano – e possono generare una perdita di consenso verso il brand – contribuiscono probabilmente a mantenere l’attenzione di questi attori sul generare esperienze utente di primo livello e “abilitare” responsabilmente più che controllare.

In un bellissimo pezzo sul suo blog Nick Grossman – parte del team Union Square Ventures – descrive il problema del “trust” della fiducia tra piattaforma e peer parlando in questi termini: “Quando si pensa [alla fiducia] ci si rende conto che [queste piattaforme incontrano] gli stessi problemi che hanno i governi alle prese con lo sviluppo delle politiche pubbliche e che le piattaforme web in realtà assomigliano molto ai governi. Il che ha un senso perché – sia nel caso dei governi che delle piattaforme – il compito centrale è quello di fornire un’architettura attorno alla quale si svolgano altre attività. Costruire le strade e le altre infrastrutture pubbliche essenziali, e quindi impostare le regole di base che consentono alla comunità e all’economia di funzionare”.

Architettura del trust

Architettura del trust

Destinati alla diseguaglianza?

In questa prospettiva in cui il capitalismo neoliberale e la peer production convivono per il bene di tutti, non tornano però tutti i conti. In primis la crescente diseguaglianza economica a cui assistiamo ci fa pensare che i gli Orchestratori di reti e l’era interconnessa abbiano operato piuttosto nella direzione inversa, generando maggiori disuguaglianze.

È possibile che la sproporzione a cui assistiamo sia effettivamente un risultato delle trasformazioni che la rete ha apportato al mercato? Siamo o non siamo nell’era della Long Tail?

Il principio di Pareto (con l’80% degli effetti che provengono dal 20% delle cause) suona terribilmente familiare alla teoria dell’1% contro il 99%. In ultima analisi però, in un tale mercato abilitante, in una “società a costo marginale zero” come la evoca Rifkin – o comunque la società umana del post “decollo” – nuove categorie di abbondanza faranno sì che avremo accesso a un crescente livello di beni e servizi, con costi di ordine di grandezza minori. Il punto è: che valore avrà a quel punto la ricchezza e dunque la disuguaglianza in un mondo di abbondanza? Un mondo dove noi e la nostra comunità potremmo forse creare nuove monete e sistemi finanziari privati e partecipativi… solo con un click?

Forse solo la scarsa fiducia che nutriamo verso la natura umana è l’unico fattore che oggi ci fa dubitare maggiormente della plausibilità di una tale prospettiva di abbondanza e di “decollo”. Viste le alternative, speriamo di sbagliare.

SIMONE CICERO

ROMA, 27 DICEMBRE 2014


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